domenica 27 dicembre 2009

Lettera a Gesù bambino

( Ho riflettuto a lungo sull’opportunità di pubblicare questo racconto breve all’interno di un contenitore volutamente scanzonato ed ironico. Alla fine mi sono convinto a farlo. La ragione più autentica è che vivo con sempre maggior disagio in questo clima di intolleranza nel quale siamo immersi. E con sgomento osservo che soffiando su questo vento malefico si costruiscono carriere politiche, si imbastiscono campagne elettorali, si crea consenso e, ciò che è peggio, si legifera. Quando qualcuno parla di “ fabbriche dell’odio” non dovrebbe riferirsi ai propri guai giudiziari, ma al destino che riserviamo a migliaia di persone in cerca solamente di solidarietà e di un aiuto per poter sopravvivere. Certo, non possiamo pensare di accogliere sulle nostre già fragili spalle il peso di tutte le ingiustizie e delle sofferenze del genere umano, ma non è innalzando steccati, abbattendo moschee o inventando patetici reati che ci mostreremo all’altezza del confronto con un problema epocale.
Questo breve racconto è il frutto in parte della fantasia, ma molto di testimonianze dirette o apprese attraverso interviste riportate dalla stampa. La realtà a volte è molto peggio della fantasia…)


Caro Gesù bambino,

Ti dedico poche righe in questi giorni di festa non per chiedere qualcosa, ma perché desidero farti sapere che apprezzo moltissimo tutto ciò che hai fatto ed i valori per i quali ti sei battuto fino alla fine nella tua sofferta vita terrena. Anche se ti prego di perdonarmi: per tutti quelli come me tu non sei il figlio di Dio, ma solo un grandissimo profeta.
Vengo da una terra molto povera, ultimo di nove fratelli tre dei quali uccisi dalla fame, dalla miseria, dalle febbri malariche. In cuor mio credo che tu possa capire cosa significhi per un bambino leggere negli occhi dei genitori la paura, l’umiliazione, il dolore per la perdita dei propri figli, la mancanza di un futuro….Non avevamo nulla: nulla con cui ripararci nelle lunghe stagioni delle piogge, un semplice tetto grazie al quale sfuggire al rovente sole africano, pochissimo da mangiare, solo acqua fangosa per dissetarci, niente medicine per lenire il dolore e calmare le febbri ricorrenti.
Un giorno ci hanno caricato tutti quanti in dei furgoni, stipati come fossimo bestiame, e ci hanno fatto viaggiare per chilometri e chilometri in mezzo al deserto. Abbiamo subito attacchi di predoni senza scrupoli, attraversato paesi in guerra, sfidato il caldo cocente: abbiamo sopportato di tutto solo perché qualcuno ci aveva regalato una speranza. Giunti finalmente nella terra accanto al mare, nel cuore della notte ci hanno stipati sopra un misero barcone. Non avevamo acqua, cibo, coperte, medicine: non avevamo nulla se non le uniche cose preziose che ci restavano: la nostra vita e la folle speranza di un domani migliore. Il giorno era caldssimo, la notte si gelava. L’acqua di mare ed il sale ci bruciavano la pelle e facevano sanguinare la bocca e la gola. Molti dei miei compagni non ce l’hanno fatta, i primi a morire sono stati i vecchi, poi anche un bambino di pochi mesi. Hanno chiesto a quelli come me, già in grado di sollevar pesi, di buttarli in mare per scongiurare il pericolo di infezioni.
Siamo infine arrivati in quello che avrebbe dovuto essere il paese dei nostri sogni. Quello che ci avrebbe accolti secondo i valori di un’antica civiltà e di quella solidarietà, fratellanza e carità predicate con vigore dalla sua chiesa.
Appena giunti ci hanno rinchiusi in squallidi centri d’ accoglienza senza riscaldamento in tutto simili a delle prigioni. Ma perchè, cosa avevamo fatto di male? “Siete clandestini” ci hanno spiegato, “irregolari, insomma dei fuorilegge. Qui da noi non vi volgiamo: ci portate solo la vostra miseria, la vostra delinquenza, le vostre usanze barbariche, il vostro terrorismo, la vostra intolleranza, la vostra civiltà inferiore. Ci sporcate le strade, ci togliete il lavoro ed i posti negli asili, nei tram, negli ospedali. Ci svaligiate le case, ci rubate le macchine, violentate le nostre donne….”. Non riuscivo a credere a ciò che ascoltavo! Noi volevamo solo un pezzo di pane, un qualsiasi lavoro, un briciolo dignità ed un paese nel quale far crescere un domani i nostri figli! In parole povere noi volevamo solo sopravvivere. In tanti ci hanno aiutato e si sono dimostrati solidali, ma altrettanti ci disprezzavano per il colore della pelle, per la nostra religione, per la nostra cultura, o più semplicemente per la nostra presenza. Non ci hanno permesso di pregare il nostro Dio, ignorando forse che è lo stesso al quale vi rivolgete voi, e che farlo all’ombra di un minareto piuttosto che di un campanile rappresenta pur sempre un atto d’amore nei suoi confronti . Quanto odio, quante guerre, quante morti nel nome di quel Dio che in realtà vorrebbe solo ci sentissimo tutti figli suoi!
Mi hanno costretto ad espatriare. No, nei lager su quella maledetta costa libica non ci torno, piuttosto la morte. Abbiamo allora tentato di ripartire. Solito barcone, solita indifferenza, inevitabile destino: la tempesta ci ha colto in mezzo al mare, abbiamo provato a farci notare dalle navi che incrociavamo, ma loro niente. Maltesi ? Italiani? Chi lo sa, adesso non ha più importanza.
Ora sono qui in mezzo a tutta questa luce, a tutto questo caldo…Non so se mi trovo in quello che i nostri padri chiamavano paradiso. Quel che è certo, Gesù, è che posso dirti di aver conosciuto l’inferno: quello della mia vita precedente.

Buon Natale a te, Gesù bambino.